Archivi del mese: luglio 2013

Twice

Avrei voluto sorvolare. Avrei voluto sorvolare per un’infinità di ragioni: per il tempo trascorso, per il fiume di parole già a suo tempo tracimate dagli argini della mia psiche malconcia, per la mia situazione sentimentale attuale, per l’inutilità di tutto questo. Una decina di giorni fa circa ho sorvolato sul meraviglioso incontro. Ritrovarmelo davanti nell’arco dello stesso mese, mi sembra troppo surreale per non scriverne. Di chi sto parlando? Miei cari lettori (?!) dell’ultim’ora, dovreste farvi un giro sull’archivio ante-2008 di questo blog per capire di chi parlo. Perché il protagonista più o meno latente, agli albori di questo sito (che ai tempi era un qualcosa tipo elucubrazioni.livespace.com), è stato lui. Sempre lui. Lui, coi suoi occhi malsanamente azzurri (che mi scatenano sempre turbini di imprecazioni), lui col suo modo di parlare, lui col suo sorriso timido, lui con la sua mimica facciale, lui e i suoi capelli (un po’ meno in realtà) castano rossicci. Insomma, lui…in tutta la sua “cipollinitudine” . E alla fine, basterebbe andare a ripescare uno di quei post (e sono certa ce ne sarà almeno una decina) e riproporlo. Ma no, perché…perché sono passati 8 anni, 5 mesi e 11 giorni dal fatidico 17 febbraio 2005. Perché dopo la maturità e “quella” lettera l’ho “perso”. Perché l’ho rivisto verso Capodanno 2010, ho provato a chiedergli di restare in contatto, ma niente. Perché nel frattempo ho un moroso che amo da 4 anni e mezzo. Ma nonostante tutti questi perché che rendono diversa la situazione, penso che le emozioni potrebbero essere più o meno le stesse. Le sensazioni tipo 9 giugno 2007, quando dopo non ricordo che evento studentesco ed il concerto di Frankie Hi-nrg abbiamo fatto tipo “Lilly e il vagabondo”  raccogliendo i cavi sul palco, quando per qualche secondo ci siamo abbracciati e io ricordo chiaramente di aver pensato “All I ever wanted, all I ever needed is here in my arms”. E ancora una volta, di nuovo, ho bisogno di fissare con le parole questa “cosa”. Ho bisogno di lasciare traccia delle mie mani che ancora tremano vicino a lui. Ho bisogno di lasciare traccia del Nulla che mi attraversa quando lo sfioro. Ho bisogno di lasciare traccia dell’insensata felicità che mi pervade all’idea della sua esistenza. Ho bisogno di lasciare traccia che incrociarlo scatena nella me 26enne laureata inoperosa, le stesse identiche sensazioni che dirompevano nella non ancora 18enne liceale nichilista. E diamine, quando scrivevo del “per sempre” di cui questa strana straziante vicenda mi è sempre sembrata intrisa, non immaginavo fosse così intenso anche a distanza di anni. Innamorarmi di lui ha cambiato irrimediabilmente il corso della mia esistenza e questo l’avevo capito anche in quella fatidica mattinata di autogestione. Quello che non potevo prevedere era quanto sarebbero perdurati altri aspetti della vicenda. E a questo punto, da innamorata ricambiata e morosa convinta e fedele, rimane ancora più deleterio tentare di connotare il tipo di “sortilegio” che mi lega   a questo “strazio” di gioventù. Sarà che l’empatia di fondo è talmente radicata da non sentire il tempo che passa. Sarà che, al di là di ogni stupida retorica, lui mi ha realmente cambiato la vita. Sarà che ha tenuto in ostaggio i miei neuroni per più di 3 anni. 8 anni fa tutto questo lo chiamavo Amore. Ora non lo so. Perché l’Amore per me si chiama Tatolino. E quindi? Alla fine, so che non dovrebbe importarmene nulla. Se una volta morivo dalla voglia di assaggiare il sapore delle sue labbra (e diamine quanto c’ho fantasticato), ora assolutamente no. Eppure, pur senza la componente fisica, so che se lui facesse parte della mia vita, mi sentirei un po’ meno smarrita, un po’ meno spaesata (o forse sarebbe il caso di dire “impaesata”? xD) e il mondo mi farebbe un po’ meno schifo. In ogni caso, sia come sia…la sensazione della mia guancia contro la sua barbuta per i  classici bacini di saluto, sarà un pensiero che mi strapperà un sorriso per le settimane a venire. Perché per la parte di me che è rimasta intrappolata nei suoi occhi un giovedì del 2005 il tempo sembra non passare mai. E, ora come allora, se da un lato questo mi turba immensamente, dall’altro mi fa sorridere come una povera stronza. E non mi resta altro che dirmi va bene così e ringraziare non so chi per averlo messo sulla mia strada.

Nothing to do, nothing to say

Sono ufficialmente disoccupata da un mese e due giorni. O più che altro sono in una fase prettamente italiota di…come li chiamano? Ah sì…NEET. Bene, al momento penso di essere un numero all’interno di quella statistica lì. Sì, sono una brutta persona. A mia “discolpa” (ma colpa de che? Ma che ve frega a voi?) dico che sto (quasi) facendo progetti, epperò con la classica lentezza, pigrizia, indolenza e scazzo cosmico che caratterizzano la mia esistenza. A dirla tutta ho anche un po’ di quel “sano” malessere atavico che serve a farti sentire vivo e un po’ meno cerebroleso della media. Eh sì, che a noi animi afflitti da cicliche fasi di paranoia senza motivo apparente, piace ergerci al di sopra del “popolino”, perché così almeno ci consoliamo pensando di essere un po’ speciali. Che poi non è vero perché anch’io sono “la canticchiante e danzante merda del mondo”, ma alla fine uno dovrà pur raccontarsi delle cose per appoggiare i piedi fuori dal letto la mattina, o no?

In ogni caso, questo voleva essere un post vagamente “libroso”. Nel senso che, questa mia ennesima fase di impasse esistenziale, mi ha riportato a leggere abbastanza regolarmente ed ho da poco finito “Il seggio vacante” di J. K. Rowling. Ora, tutti sanno che la Rowling è l’autrice di Harry Potter ed è per quello che sempre verrà ricordata. Credo però fosse giusto che come scrittrice si cimentasse in qualcosa di molto diverso dalla saga del celeberrimo mago. Quindi, tenendo ben in mente questo, mi sono fatta regalare la sua ultima fatica. In realtà il libro giaceva da parecchi mesi su una mensola, ma non riuscivo a conciliare il mio ruolo di dipendente pubblico con quello di lettrice.
La trama in estrema sintesi: il consigliere comunale di un piccolo paese inglese muore improvvisamente e dev’essere sostituito. Sullo sfondo le rogne, le invidie,  le storie e gli intrallazzi di una comunità ottusa e antipatica. I personaggi sono tanto ben descritti, quanto odiosi, stereotipati, irritanti e noiosi. Le loro vicende non appassionano e mentre le pagine scorrono sotto le dita aumentano il fastidio e il desiderio che facciano tutti la fine di Barry Fairbrother (il consigliere morto). Le dinamiche sapientemente raccontate sono quelle che chi abita in un paese di merda già conosce. Non è difficile riconoscere in Shirley Mollison la vicina impicciona, bigotta e ipocrita che chi si ritrova a vivere in un posto tipo quello dove abito io sicuramente conosce. I “tipi” identificabili sono molti, ma quello della moglie del più grande avversario politico del povero defunto Barry, Howard Mollison, è il più fastidioso. Forse perché, per la sottoscritta, ha lo stesso atteggiamento di quella che abita sotto di me. Il giudizio finale è: seppur ben scritto, se avevo voglia di rompermi le balle coi pettegolezzi di una realtà claustrofobica e rurale stavo ad ascoltare i sermoni di quella di sotto e non mi sorbivo 553 pagine.

Infine, una roba che non c’entra nulla, ma era un mese che volevo pubblicarla cercando un pretesto. A questo punto me ne frego del preteso e l’accodo qui.